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Umbria Jazz: mezzo secolo

Umbria Jazz: mezzo secolo

Courtesy Andrea Rotili

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Umbria Jazz 2023
Varie sedi
Perugia
7—16.7.2023

50 anni di Umbria Jazz e 90 del suo fondatore e direttore artistico Carlo Pagnotta: un evento unico, festeggiato con un'edizione veramente speciale, ricca di musica e di iniziative collaterali, che ha superato nella programmazione come nella partecipazione del pubblico i livelli degli ultimi anni pre-Covid. Alcuni numeri significativi: un incasso da biglietti superiore a 2.3 milioni di euro per 40 mila presenze paganti, con una media di 3200 paganti all'Arena Santa Giuliana, oltre 500 al Teatro Morlacchi e 150 alla Sala Podiani. Queste affluenze sono indicative delle relative capienze dei tre spazi principali e di conseguenza anche del tipo di proposte che in essi sono state ospitate. La programmazione di quest'anno ha voluto anche riassumere la storia recente del festival, invitando alcuni degli artisti che sono ormai di casa ad Umbria Jazz, diventandone dei veri e propri beniamini. Una mostra fotografica inoltre, allestita alla Galleria Nazionale dell'Umbria, ha raccolto gli scatti di 17 autori, ripercorrendo i cinquant'anni del festival attraverso le immagini di alcuni dei jazzisti che lo hanno reso grande e ancor più del pubblico, delle location e delle situazioni vissute nei decenni dalla città. Il resoconto che segue, che inizia con la descrizione degli spettacoli all'Arena, riporta solo una selezione delle proposte ascoltate; ne risulta tuttavia una recensione-fiume, che può riservare spunti personali e inaspettati, condivisibili o meno.

A ottantatré anni Herbie Hancock è tornato a Umbria Jazz con una formazione quasi identica a quella che non mi è stato possibile ascoltare lo scorso anno. L'incipit del suo concerto è stato trascinante per motivazione e creatività, con il leader che si alternava al piano acustico ed elettrico con una diteggiatura possente e insistita, ripercorrendo le atmosfere funky di cui è stato l'inventore; lo spalleggiava un Terence Blanchard in stato di grazia, autore di slanci lirici e lancinanti con la sua tromba elettrificata. Dopo un assolo troppo effettistico di Lionel Loueke, che a mio parere ha smorzato la magia genuinamente jazzistica che si era creata, è stato tributato un doveroso omaggio a Wayne Shorter, reinterpretando "Footprints" in un arrangiamento di Blanchard: ancora ineludibili gli interventi di quest'ultimo e più concretamente finalizzati quelli del chitarrista. Il concerto è proceduto con temi del leader, soprattutto degli anni Settanta, mettendo in evidenza umori, episodi, protagonisti di volta in volta diversi. Rimane da ricordare il drumming del giovane Jaylen Petinaud, la cui propositiva esuberanza ha raggiunto toni gioiosi, e l'apporto di James Genus, il cui sound, fin troppo compatto e compresso nell'accompagnamento, si è dipanato in un paio di assoli virtuosisticamente organizzati. Con l'immancabile, ipnotico e motorio "Chameleon" si è conclusa una festa del jazz-funk targato Hancock.

Per me è stata una vera sorpresa l'apparizione di Rhiannon Giddens, affiancata da Francesco Turrisi. I due, coppia nella vita e sul palco, hanno presentato un set variegato nel repertorio e negli approcci. Il brano d'apertura, lo spiritual "Phoenix Rising," ha rappresentato una rivelazione folgorante: la voce austera, partecipata, con le giuste inflessioni della quarantaseienne cantante della Carolina del Nord, memore dei precedenti di Mahalia, Nina Simone e Odetta, era accompagnata dal suo banjo e dal tamburo a cornice suonato con avvincente perizia da Turrisi. Il repertorio ha poi compreso episodi strumentali e canti di varie provenienze culturali: una folk song italiana di Lucilla Galeazzi, un omaggio alla musica del Brasile del Nord ed uno alla tradizione irlandese, una canzone spagnola e ancora tanti esempi del passato statunitense: blues, country, spiritual, folk... Anche a livello strumentale il duo ha esposto un'ampia gamma di mezzi: notevole la Giddens al banjo e al violino, mentre Turrisi, oltre che al tamburo a cornice, in cui eccelle, si è alternato alla fisarmonica, al banjo e al pianoforte. Certo ne è risultato un percorso forse un po' didascalico e dispersivo, anche se unificato dall'autorevolezza vocale della protagonista e da un genuino eclettismo, tendente a favorire la convivenza e il confronto fra diverse culture. Il bis ha poi costituito un altro imprevedibile vertice del concerto: oltre che con una pronuncia italiana perfetta, "Vedrai, vedrai" di Tenco—che per l'aspetto armonico si avvalse della collaborazione di Renato Sellani—è stato cantato con una vibrante e adeguata partecipazione, del tutto aderente alla disperata tristezza dell'originale.

Altrettanto impegnato, profondamente e sinceramente legato alle radici africane e dedicato alla comunità africana di Harlem si è dispiegato invece il canto di Somi, cresciuta tra Illinois e Zambia e forte di una formazione specialistica non solo musicale. Il modello più evidente è senza dubbio quello di Miriam Makeba, che viene rivisitato con toni più leggiadri, talora nostalgici, raggiungendo però anche picchi drammatici. Il contributo asciutto dei suoi partner è stato del tutto funzionale al messaggio lanciato dalla leader, salvo accendersi talvolta in una pronuncia free-modale negli assoli del sassofonista Myrion Walden e del pianista Toru Dodu. Liberty Ellman alla chitarra, presenza inaspettata, si è invece mantenuto all'interno di un fraseggio essenziale e rigoroso.

All'Arena è stata proposta anche la replica di una serata già svoltasi nel 2021, mettendo in successione la poesia intimista del trio di Brad Mehldau e l'esuberante vitalità del quartetto di Branford Marsalis. Se allora l'incedere del pianista mi parve un po' statico rispetto alla verve del sassofonista, quest'anno ho ricevuto impressioni opposte. Non solo l'estroversione di Marsalis, incanalata anche in brani lenti e meditativi, un po' di maniera, non mi è sembrata altrettanto avvincente, ma la qualità di alcune scelte tematiche e interpretative non è stata sempre ineccepibile, anche se non sono mancati sprazzi apprezzabili: Branford, soprattutto al soprano nei brani più bluesy ha esposto accenti antichi, mentre fra i suoi partner è emerso Joey Calderazzo con interventi al pianoforte di grande spessore.
Quanto a Brad Mehldau, spalleggiato dai fidi Larry Grenadier e Jeff Ballard, il suo concentrato pianismo ha proceduto su tempi prevalentemente medio-lenti, quasi con una concatenazione circolare, in grado di raccontare storie ipnotiche, ora serene ora malinconiche. Il tocco sgranato della mano destra e il tenue accompagnamento della mano sinistra, acusticamente in secondo piano, hanno dato vita ad un fraseggio continuo, ben spaziato, creando una leggera tensione swingante. Fra l'altro in occasioni come questa si dimostrano di grande utilità i due maxischermi collocati ai due lati del palco, che mettono in evidenza ora le espressioni facciali ora i movimenti delle dita, rivelando le soluzioni tecniche e i comportamenti emotivi degli interpreti.

La musica degli Snarky Puppy, tentetto pilotato dal bassista Michael League, si regge innanzitutto su strutture compositive ben stagliate sotto il profilo melodico e ritmico, lanciando messaggi magniloquenti e stentorei. Altrettanto rigorosi sono gli arrangiamenti che mettono in evidenza le varie sezioni e la componente ritmica, alternando crescendo dei collettivi e zone di distensione. Tutti i membri della formazione si attengono scrupolosamente al proprio ruolo, contribuendo al risultato complessivo, caratterizzato da un sound fluido e brillante. Fra i tanti vorrei citare almeno il poderoso batterista Larnell Lewis, perenne caposaldo ritmico, ma non si può omettere una curiosità del concerto perugino: solo in un brano è stata invitata sul palco l'ospite bolognese Francesca Tandoi, che non ha certo sfigurato con le sue concise ma sfrenate scorribande sulla tastiera elettrica.

Grazie alla capienza massima di 5000 persone, l'Arena è in grado di ospitare soprattutto le proposte pop-rock, che riscuotono sempre un prevedibile successo. Se sull'apparizione di Bob Dylan, evento che ha aperto il festival a cui non ero presente, mi sono stati riferiti pareri per lo più positivi, sugli altri protagonisti azzardo commenti telegrafici: a un Mika generoso, scatenato, giovanilista a tutti i costi, si è contrapposta la tranquilla normalità, a tratti quasi seriosa o intimista, della performance di Ben Harper & The Innocent Criminals. Con "Police Deranget for Orchestra" il comunicativo Stewart Copeland, attorniato da uno stuolo di collaboratori, ha tradotto il mondo dei Police in una roboante accademia. Le serate all'Arena si sono concluse con il tutto esaurito della compatta band del chitarrista e cantante Joe Bonamassa, che ha proposto il rock più squassante e logorroico, condito di piccante blues. È superfluo dire che tutti questi gruppi hanno manifestato quasi sempre una tecnica e una professionalità molto elevate.

Come è ovvio, si è assistito ad una maggiore caratura jazzistica nei concerti, prevalentemente diurni, al Teatro Morlacchi e alla Sala Podiani. Il mio primo concerto al Morlacchi è stato quello di Paolo Fresu nel suo progetto "Ferlinghetti," edito da Tuk Music e dedicato ad uno dei protagonisti della Beat Generation. Si è dipanato un percorso variegato, in cui i brani in trio hanno presentato una conseguente e robusta improvvisazione jazzistica: il poderoso pulsare del contrabbasso di Marco Bardoscia e il pianismo determinato ma volatile di Dino Rubino hanno sostenuto i racconti del flicorno del leader, che ha preso insospettate inflessioni screziate, oltre a venire riverberato grazie all'elettronica. Il bandoneon insinuante di Daniele di Bonaventura si è unito al trombettista in un brano di Caetano Veloso arrangiato da Jaques Morelenbaum e ha poi affiancato il pianista in un duo scritto da Bardoscia, a sua volta protagonista di un altro duo con Fresu, in cui la stratificazione dovuta al loop ha garantito una progressione incalzante. Il quartetto al completo ha invece interpretato un paio di brani fortemente caratterizzati: il lento, malinconico, cadenzato "Ferlinghetti" e il brano finale, cangiante e sostenuto, proteso verso insistenze quasi parossistiche.

Il concerto del Gianluca Petrella Cosmic Renaissance si è avviato su note lunghe e un ritmo lento, su alchimie elettroniche che hanno introdotto un andamento evocativo, un'ipnosi esotizzante; il tutto è stato accentuato subito dopo da un più denso e concitato contesto ritmico, da sortite corpose e impennate da parte del trombone del leader e della tromba di Mirco Rubegni su temi riff ben scanditi. È stato poi un susseguirsi di temi lunghi, enfasi epiche, fruscii elettronici, greve pulviscolo ritmico, momenti di passaggio più decantati... Il motivato contributo di tutti -oltre al già citato Rubegni, il vigoroso basso elettrico di Riccardo Di Vinci e il deciso ma frastagliato contesto ritmico allestito da Federico Scettri e Simone Padovani—ha dato corpo alla peculiare estetica di questa band fondata nel 2015 da Petrella, al quale fra l'altro la Fondazione Perugia ha consegnato il Premio 2023 come Ambasciatore dell'Umbria nel mondo.

Un repertorio con brani di Petrucciani o da lui abitualmente interpretati è stato affrontato da un super-gruppo quasi tutto europeo, creato per l'occasione: l'autorevole Chano Dominguez al pianoforte, i nostri Flavio Boltro e Stefano di Battista, ospite speciale, supportati dal contrabbassista spagnolo Martìn Leiton e dal batterista cubano Michael Olivera. Sul palco si sono avvicendate formazioni sempre diverse, che hanno spaziato dal duo al quintetto al completo, producendo una sequenza di aggregazioni, dinamiche, spazi solistici di invidiabile esuberanza, anche se per le situazioni e l'approccio generale hanno ricordato un po' troppo una jam session.
Orfano del guru-leader Wayne Shorter, il suo trio si ripropone in concerto e su disco, anche se l'originario batterista Brian Blade viene oggi sostituito dal meno determinante Adam Cruz, mentre rimane l'ossatura portante del pianismo granitico di Danilo Pérez e del pizzicato agile e risoluto di John Patitucci. Rispetto alle performance di Shorter, in cui un magico equilibrio nasceva da un'improvvisazione collettiva particolarissima (memorabile l'apparizione a Umbria Jazz nel 2012), la musica dell'attuale trio si sviluppa in un modo totalmente diverso. Nel concerto al Morlacchi infatti i temi, gli sviluppi, gli interventi solistici sono stati esposti in modo monolitico; tutto, conseguito da una convinzione deterministica e positiva, è risultato fin troppo affermativo, ben declamato, senza alternative o ripensamenti. Forse un atteggiamento più problematico e accorgimenti più variati avrebbero potuto giovare al risultato complessivo.

Ben più consistenti per la valenza artistica e "storica" i tre concerti che hanno fatto seguito. Una delle apparizioni del duo Enrico RavaFred Hersch ha ribadito la congenialità di questo sodalizio che si regge su una equilibrata poesia di intenti e di risultati. Il trombettista italiano (ottantaquattro anni il prossimo agosto) non è apparso al massimo delle sue possibilità tecniche, ma la classe non è acqua: su un timing sempre seducente, la sonorità soffiata, smorzata, vagamente sdrucciola del suo flicorno è sembrata l'espressione di un suono interiorizzato e sofferto, senza rinunciare a quelle sue tipiche, veloci scale tronche, capaci di dare ancora un brivido eccentrico. Sempre delicatissimo si è confermato il procedere della diteggiatura del pianista americano, con note cristalline e varietà melodico-armoniche, inserendo però a tratti qualche ripiegamento relativamente più cupo, incursioni in un tono più brioso, oppure qualche soluzione audace, come l'uso delle due mani contemporaneamente sui registri estremi della tastiera. Il composito repertorio del duo, per lo più su tempi medio-lenti, si è concluso nel nome di Monk: sublime la versione di "Round Midnight" da parte del solo Hersch, seguita da un intenso e malinconico "Misterioso" in duo.

Tutto è risultato iper-classico e swingante nel jazz del trio di Kenny Barron: il pianismo ora disteso ora debordante, ma sempre elegante, rifinito, narrativo del leader; il pizzicato dell'esperto contrabbassista Kiyoshi Kitagawa, che negli assoli ha inserito azzeccate ricercatezze armoniche e ritmiche; il drumming dell'emergente Savannah Harris, che, mantenendo una postura da manuale del busto, eretto e quasi immobile, ha perennemente scandito un ritmo incalzante sul piatto centrale e ha inventato notevoli figurazioni sulle pelli. Ma anche altri aspetti erano super-canonici: la mirata confezione del repertorio che ha alternato ballad e brani veloci, senza dimenticare propri original come "Calypso"; il previlegiare la sezione centrale della tastiera e il volume medio, ricorrendo anche alle classiche chase fra piano e batteria; la pacata e sintetica presentazione dei singoli brani... Tutto super-classico appunto, ma jazz autentico, di una personalità e uno spessore creativo come sarà sempre più difficile ascoltare nei decenni futuri.

Contendendosi la serata con il tutto esaurito di Paolo Conte all'Arena, al Morlacchi, con altrettanta affluenza di appassionati, è approdato l'ultimo progetto di Bill Frisell, già su disco, con Greg Tardy, Gerald Clayton e Johnathan Blake. I temi più o meno recenti del suo repertorio, che come in passato affondano le radici nel mondo del blues e del folk, sono stati approcciati in modi trasversali: timidi arpeggi cristallini, un organico duo chitarra—batteria, un'introduzione improvvisata dal solo leader, un lungo trait-d'union a carico del pianismo rapsodico di Clayton... Le melodie tematiche, esposte prevalentemente dal clarinetto puntuto o dal tenore dal sapore antico di Tardy, hanno avviato l'intreccio improvvisativo dei quattro strumentisti, che ha lasciato comunque riecheggiare il tema, appena accennato da parte dell'uno o dell'altro. Per dare forma coerente ed espressione a questa musica, evocativa, astratta e concreta allo stesso tempo, occorre un'intesa istantanea, un interplay sinergico. Sotto la leadership molto distaccata del chitarrista ognuno ha dato il suo contributo al raggiungimento di un consistente risultato comune, pur disponendo di un opportuno spazio d'esposizione personale.

Già proposta in tono minore a Umbria Jazz nel 2021, poi approdata alla Verve e recentemente vincitrice del Grammy in due categorie diverse, Samara Joy viene oggi presentata come la nuova star del canto jazz statunitense. Tutto, nel suo concerto pomeridiano che ha concluso la programmazione al Morlacchi, ha funzionato a meraviglia: la scelta del repertorio, il timbro mutevole e l'intonazione della sua voce, il sublime controllo del timing e del volume, la verve e il gusto interpretativo, le presentazioni colloquiali dei brani, forse un po' prolisse, fino al contributo super-professionale del suo trio. Bravissima la Joy e in visibilio il pubblico che gremiva il teatro. Eppure ritengo che protagonisti come questi rappresentino certamente la fortuna del mercato, alla perenne ricerca di voci nuove, e la risposta più esaltante alle aspettative di un certo pubblico; penso che in misura molto minore possano preannunciare il futuro del jazz.

Fra i numerosi concerti mattutini o pomeridiani che si sono susseguiti alla Sala Podiani della Galleria Nazionale dell'Umbria -le cui pareti erano tappezzate da tutti i manifesti di Umbria Jazz in ordine cronologico -preferisco concentrarmi su alcuni appuntamenti ineludibili, cominciando da tre solo-performance pianistiche.
L'improvvisazione sperimentale del cubano David Virelles si è inizialmente mantenuta all'interno di un linguaggio classico-contemporaneo, basato su un uso totale delle possibilità della tastiera; decisi contrasti dinamici hanno dato vita a un'alternanza fra forte e piano, ad accelerazioni e rallentamenti, agglomerazioni sonore dirompenti e diradamenti pensosi. Fasi più concatenate in un discorso organico hanno fatto emergere la sua anima jazzistica, che ha dimostrato di complicare il modello di Monk sia a livello tematico che nell'eccentricità degli accordi, ma anche di guardare all'incedere ripetitivo e incalzante del ragtime. In grande evidenza inoltre si è manifestata una cantabilità di matrice latina, ora delicata ora frammentata, ereditata dalla sua cultura d'origine. Una grande concentrazione ha caratterizzato il set di Virelles, lontano da soluzioni risapute, rivelando una spiccata, potente personalità creativa.

Un pianismo altrettanto personale e determinato, anche se diversissimo per origini, intenzioni e mood, lo si è ascoltato la mattina successiva con Rita Marcotulli. Le sue improvvisazioni hanno previlegiato original di una certa complessità e generati da diverse ispirazioni, come la composizione dedicata a Truffaut, spesso da lei riproposta, ma hanno anche interpretato pochi amati brani di altri autori. La pianista romana ha dato concretezza a una pronuncia che col passare degli anni sembra diventare sempre più piena e affermativa, in cui l'aspetto melodico della narrazione rimane sempre lontano da facili espedienti comunicativi. Gli excursus della propositiva mano destra sono sempre stati sostenuti da una presenza costante e solida della mano sinistra, producendo un sound rotondo e imponente.

Un discorso analogo lo si potrebbe fare anche per Danilo Rea, un altro esponente della scuola romana, che alla Sala Podiani è stata ampiamente documentata, ospitando anche Enrico Pieranunzi, che purtroppo non ho potuto ascoltare. Il senso melodico di Rea nell'affrontare un repertorio sterminato di canzoni italiane e non solo, ma anche di famose arie operistiche, si dispiega nel modo fluido e imprevedibile di passare da un tema all'altro, intessendo le armonie e i ritmi. Anche a Perugia i temi, per lo più citati fugacemente, sono diventati pretesto per un'improvvisazione che ha preso insistenze percussive, spunti blues, enfasi pompose, toni giocosi, sviluppi rapsodici... Insomma il gusto per un libero sviluppo improvvisativo e per un'esuberante pronuncia jazzistica è prevalso sull'esigenza di esporre melodie arcinote in modo descrittivo e accattivante. L'atteggiamento creativo di Rea è riuscito a toccare punte drammatiche senza dimenticare però la poesia e una goccia d'ironia.



MixMonk è uno strano trio paritario attivo dal 2017, in cui i giovani belgi Robin Verheyen e Bram De Looze, rispettivamente sax e piano, sono stati affiancati dal maestro Joey Baron. La loro musica sembra rispondere a questa domanda: come rendere un omaggio neo-cool, anzi decisamente cameristico, al grande Monk? La risposta è semplice: innanzitutto in ogni concerto viene totalmente azzerata l'amplificazione; in secondo luogo, rispetto ai loro sofisticati original i temi monkiani sono relativamente pochi e per lo più intrecciati, stravolti, raggelati. L'incedere risulta frammentato da pause e rallentamenti, limitando lo swing, mentre il sound può andare dal pianissimo a impennate imprevedibili. Tutto questo è stato confermato dal concerto alla Sala Podiani, in cui sono emersi in evidenza il pianismo austero, a tratti astruso, di De Looze e il fraseggio altrettanto controllato ma con episodi eccentrici di Verheyen. Baron, che nel complesso ha condotto un accompagnamento pacato, quasi in sottofondo, si è ritagliato alcuni essenziali ma incisivi assoli.

La solo-performance di Marc Ribot infine ha compendiato in un flusso continuo varie anime della chitarra acustica: in primis il blues e il folk statunitense, ma anche la sperimentazione più disarticolata, lo swing classico e perfino brevi reminiscenze rinascimentali e spagnole. Forse solo il rock era escluso da questo percorso. Il tutto con l'atteggiamento pensoso e reticente di una ricerca istantanea, che è transitata attraverso preziosismi sonori, citazioni tematiche, contrasti dinamici di volume e di ritmo. Con una poesia intimista che non ha escluso momenti più tonici e organicamente costruiti, la componente colta e sperimentale ha convissuto con quella popolare.

Un altro importante appuntamento ci aspetta a Orvieto, dal 28 dicembre al 1° gennaio 2024, per celebrare i trent'anni di Umbria Jazz Winter.

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